A ormai più di qualche giorno dalla fatidica cerimonia di apertura dell’anno da Capitale, può essere utile ritrovare il filo di una riflessione che la concitazione e l’eccitazione del momento stimolano e inevitabilmente distorcono. Mi riferisco in modo particolare alla questione su chi abbia per primo “avuto l’idea” di candidare Matera a Capitale europea della cultura. Ebbene, conscio che questo potrebbe disorientare più di qualcuno, da protagonista e testimone diretto con l’Associazione Matera2019 di quegli attimi che precedettero il big bang, dico e affermo che poco ci importa di essere citati e ricordati e gratificati dell’esser stati “i primi” a parlare di Matera come Capitale europea della cultura… Vale la pena ritrovare il filo di questa riflessione, invece, proprio per le implicazioni più o meno sottaciute.

Dell’idea

Pochi o nessuno infatti sono quelli che hanno compreso come qui importante non sia affatto la questione della primogenitura; ripeto spesso che le idee nel contesto attuale non sono una risorsa scarsa e che scarsa invece è la capacità/volontà/possibilità di trasformare le idee in progetto concreto e sostenibile. Quell’idea non avrebbe significato nulla se, ancorché “prima”, originale e visionaria, intorno ad essa non si fosse avuta la capacità di raccogliere e aggregare il consenso e la disponibilità ad operare di prima poche, poi tante persone che autonomamente, senza risorse, si sono organizzate, preparate, hanno ipotizzato e sperimentato percorsi e metodologie e per quasi tre anni hanno costruito le fondamenta culturali e sociali sulle quali far attecchire un progetto. E che se questa costruzione “dal basso” che tanto ha impressionato i commissari europei, sino alla designazione, può dirsi realmente esemplare e significativa anche per altre città e più in generale per un modello efficace di protagonismo civico, è per via di alcune caratteristiche specifiche, che sinteticamente possiamo elencare: il radicamento sulla “condizione” e sui problemi, sulle fragilità riconosciute; la visione; il coinvolgimento e la partecipazione diffusa; l’apertura a soluzioni non precostituite; il popolarismo (differente dal populismo!) come antidoto all’elitarismo; il forte radicamento nella memoria remota e in quella recente di qualsivoglia progettazione… e così via.

Del manipolo

Su questa via è stato naturale perciò contestare in tutti questi anni quell’atteggiamento “tecnicamente” arrogante di chi ha voluto in tutti i modi sminuire, relativizzare, accantonare non tanto l’idea quanto l’impegno e il lavoro di quei primi anni perché è questo il cambio di paradigma cercato ed ottenuto, in cui la partecipazione dei cittadini non si riduce a mero sventolio di bandiere ma diventa protagonismo vero di chi pensa, progetta, produce, controlla e chiede conto e certamente non ha timore di disturbare il macchinista. Sull’assunto che “non ci importa tanto il titolo quanto il percorso”, ebbene il più grande errore che si possa fare è derubricare alla velleità di un manipolo di (ex) ragazzi un processo storico che nell’ultimo decennio ha visto una intera popolazione realmente prendere coscienza della propria eredità e lanciare una vera e propria sfida “generazionale”. E che non può e non intende una volta di più firmare una delega in bianco a chichessia sulla via di un futuro che può essere davvero “open” solo se definito in questo modo e non sulla scia di idee ed interessi di gruppi più o meno ristretti, anche laddove questi coincidessero con luoghi istituzionali e dunque teoricamente vocati ad essere “spazio pubblico”.

Dell’eredità perduta

Questa eredità ha una duplice valenza: è il lascito di chi ci ha preceduto e che noi protagonisti nel nostro tempo abbiamo l’obbligo di preservare valorizzare e tramandare. Ed è anche il lascito che sapremo immaginare e costruire sulla base di questa straordinaria esperienza collettiva che è la Capitale europea della cultura. Questa eredità sarà perduta se perderemo la nostra “memoria” tanto quanto se perderemo la capacità di generare futuro restando protagonisti e generatori di questo futuro. Nel momento in cui si avvia persino un laboratorio per il “Piano decennale della cultura” (su Fb il gruppo 2030PainoDecennale), la vera scommessa non è tanto il riuscire a produrre un documento finale di buon senso (così come non è sufficiente “applicare” i contenuti del Dossier di candidatura) quanto il riuscire a implementare una infrastruttura immateriale e materiale realmente capace di garantire pluralismo, policentrismo, sistema di regole condivise e rispetto di quelle regole, parità di opportunità anziché discrezionalità, cura del bene comune oltre la difesa di interessi e logiche particolari, qualità dei progetti e non benaltrismo. E magari evitare di produrre solo qualche poltrona saldamente incollata al “successo” di Matera Capitale. Prova del concreto limite dell’attuale situazione è la contraddizione palpabile in città fra nobili intenti inevitabilmente ridotti a slogan e percezione diffusa: “open future” e percorsi obbligati; “inclusione” e sensazione di separatezza e lontananza; “partecipazione” e ininfluenza nei processi decisionali; “conoscenza” e perdità di identità; “open data” e segrete stanze.

Lungi da noi il pensare come da qualche parte si vuol fare intendere che tutto il “circo” legato a Matera 2019 con il suo portato di interessi, i limiti e le mancanze sia “il male”, anzi. Non ci appassioneremo mai ad una sterile critica su tutto e su tutti. Ma la vera scommessa di questo anno fantastico è tutta nella “sostanza” che proviene dallo sforzo di quel “manipolo” di persone che sarà capace di esprimere questo tipo di protagonismo.

Vito Epifania

Matera Capitale. Dell’idea, del manipolo e dell’eredità perduta

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