Sono stato molto incerto se dare corpo a queste riflessioni, per il fatto di essere un funzionario dell’Università della Basilicata; come tale, non rappresento il pensiero della comunità universitaria nel suo insieme né dei suoi vertici; nondimeno ho ritenuto utile esprimermi, da cittadino materano e modesto conoscitore delle vicende universitarie.

Già dall’inizio degli anni ’90, a dieci anni dalla sua fondazione, l’Università della Basilicata mise piede a Matera con la nascita della Scuola di specializzazione in Archeologia (oggi Scuola di specializzazione in Beni archeologici); forse si trattava, per chi gestiva allora l’Università, dell’unica iniziativa che l’Università della Basilicata avrebbe dovuto portare avanti a Matera. La storia successiva ci dice che così non fu: diverse iniziative didattiche furono avviate a Matera, giustificate probabilmente dalla peculiarità della sua realtà produttiva e territoriale, ma pure dalla opportunità di proporsi all’ampio bacino di potenziali utenti provenienti dal bacino murgiano. Si è trattato di una storia lunga quasi vent’anni, caratterizzata da alti e bassi, ma sicuramente da alcuni elementi costanti: (a) una dotazione di servizi caratterizzati da standard decisamente inferiori a quelli della sede di Potenza; (b) la presenza di iniziative didattiche che, se pure avevano “i piedi” a Matera, conservavano comunque la “testa” a Potenza; (c) un feeling mai sbocciato con la città di Matera, per le cui famiglie e per la cui classe dirigente l’Università ha costituito per lungo tempo un oggetto misterioso di scarso interesse.

Dal 2010 qualcosa è cambiato. La legge Gelmini, che ha stravolto l’organizzazione degli atenei italiani, in Basilicata ha avuto tra i suoi effetti quello di far nascere per la prima volta una “struttura primaria” a Matera, ovvero un Dipartimento al quale afferiscono al momento 39 docenti e ricercatori che portano in città per la prima volta “la testa” oltre che “i piedi” di una esperienza universitaria. Il DiCEM (Dipartimento delle Culture europee e del Mediterraneo: architettura, ambiente, patrimoni culturali) rappresenta dunque la prima esperienza compiuta di Università a Matera. Si tratta peraltro di una sfida abbastanza “folle”: spinto dalle novità previste dalla legge Gelmini e dalla necessità di creare un Polo universitario caratterizzato dal legame con il contesto, il Dipartimento di Matera è stato costruito non intorno ad una o più famiglie scientifico disciplinari tradizionalmente associate nelle Facoltà o nei vecchi Dipartimenti universitari (l’ingegneria, le discipline agrarie, quelle scientifiche, umanistiche, mediche, giuridiche ecc.), ma riunendo un pulviscolo di competenze intorno al concetto di patrimonio culturale, inteso nel senso dell’art. 2 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D. Lgs. 42/04)[1].

La nascita del DiCEM è avvenuta in un contesto caratterizzato, sul piano universitario, da cambiamenti pesantissimi operati peraltro in un periodo di risorse nazionali disponibili decrescenti; sul piano cittadino, da una crisi economica ed in parte sociale di proporzioni epocali e – di contro – dalla grande sfida della candidatura della città a Capitale europea della Cultura per il 2019.

La domanda che mi pongo è se l’Università sia o meno un valore per Matera, e se in particolare lo sia per Matera Capitale europea della Cultura.

Nel dossier di candidatura, il Campus universitario, con i suoi 30 milioni di euro di fondi stanziati per la realizzazione, risulta essere la prima delle “infrastruttura culturali” individuate per consistenza dell’impegno finanziario necessario a realizzarla. Lo stesso dossier, nel rispondere alla domanda 7.1 (Quali sono i punti forti della candidatura della città e i parametri che giustificherebbero un suo successo come Capitale Europea della Cultura? Quali sono invece i punti deboli?), individua questi punti deboli: (a) incapacità di progettare sempre con un orizzonte e con legami europei; (b) università molto giovane e con relazioni internazionali ancora non consolidate; (c) una bassa popolazione studentesca; (d) incapacità di trattenere i migliori talenti; (e) tempi incerti di implementazione delle politiche e dei progetti legati sia alle infrastrutture materiali che a quelle immateriali; (f) bassa propensione al consumo culturale, uno dei punti deboli più notevoli del territorio, grazie alla nomina, avrà un ribaltamento definitivo.

Io credo che ciascuno di questi punti abbia direttamente o indirettamente a che fare con la presenza dell’Università a Matera. Credo pure che l’Università della Basilicata, coinvolta fin qui nel Comitato Matera 2019 alla stregua delle altre importanti istituzioni del territorio, si distingua da queste per il fatto di essere l’unica tra le istituzioni pubbliche coinvolte ad avere nella produzione culturale il proprio “core business”. Credo quindi che il vero investimento e contributo all’infrastrutturazione culturale della Capitale europea della Cultura 2019 non sia tanto il contenitore del Campus universitario (che peraltro dovrà essere completato e anche gestito, con costi notevoli), quanto il contenuto rappresentato dalle iniziative didattiche e di ricerca che già ora esistono nella sede universitaria di Matera, attualmente supportate da servizi inadeguati e probabilmente in maniera non troppo palese agli occhi della città e di chi la guida verso il 2019.

L’art. 136, a cui rimanda l’art. 134, definisce “immobili ed aree di notevole interesse pubblico: (a) le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica; b) le ville, i giardini e i parchi, non tutelati dalle disposizioni della Parte seconda del presente codice, che si distinguono per la loro non comune bellezza; c) i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale; d) le bellezze panoramiche considerate come quadri e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze).

[1] “1. Il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici. 2. Sono beni culturali le cose immobili e mobili che (…) presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà. 3. Sono beni paesaggistici gli immobili e le aree indicati all’articolo 134, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge. 4. I beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica sono destinati alla fruizione della collettività, compatibilmente con le esigenze di uso istituzionale e sempre che non vi ostino ragioni di tutela.”.

Università della Basilicata e Matera 2019

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